
Quello che facevo prima non ve lo posso dire, quello che posso fare è raccontarvi come ho cominciato a scrivere Hitori Meshi (一人飯) .
Tutto è nato da un cappuccino in uno dei primi sabati di dicembe di qualche anno fa.
Sedevo per la prima volta al Caffè di Sotto, dove ero entrata per caso, attirata dalla bellissima carta da parati vintage: verde petrolio lo sfondo, fiori i protagonisti. Dark.
La caffetteria quel pomeriggio era molto popolata, ho scoperto solo succesivamente che qualche giorno prima il Caffè di Sotto era apparso in un magazine dedicato a quella che chiamano latte-art.
Ho ordinato un cappuccino di soia al banco, servito in una tazza dai toni autunnali quasi terrosi, e una superfice al tatto molto porosa.
Una schiuma perfetta senza bolle, soda. Talmente soda che una moneta di 500 yen sarebbe rimasta in superfice. E un orchidea disegnata nata dal contrasto tra il colore della schiuma e quello del caffè.
La bellezza di quella schiuma, l’aroma, quella tazza unica, un attimo di ammirazione, un secondo indulgiando… e poi la decisione di godere di quella strana opera contemporanea.
Solamente dopo aver finito tutto il cappucino, ho alzato lo sguardo e, controvoglia, ho preso atto di ciò che mi circondava.
Click Click Click.
I telefoni in questo paese, non hanno l’opzione di silenziare quel click. Una foto fa fatica a passare inosservata.
Click. Intorno a me era un susseguirsi persistente di click.
Scatti pronti ad essere condivisi sui social, uno simile all’altro e in tempo reale.
Tutti intorno a me rendevano omaggio al proprio cappuccino, immortalandolo e condividendolo.
Solo io, egoista, lo avevo tenuto per me.
Un senso di colpa orribile mi aveva acchiappato alla gola.